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APPOGGIO DEL PIEDE

La perfetta comprensione dei meccanismi dell’appoggio del piede è fondamentale per evitare infortuni, migliorare la performance e, in subordine, per scegliere altre caratteristiche della corsa come il terreno, la scarpa e i suoi accessori (plantari e/o solette).

La stazione eretta

La stazione eretta dell’uomo è il risultato di una rapida successione di periodi di mobilità e di immobilità alla ricerca di un equilibrio stabile mantenuto con il minimo sforzo. In questo complesso equilibrio non entra solo l’azione dei muscoli, ma anche il sistema vestibolare e gli occhi (provate a stare in piedi su una gamba sola e a occhi chiusi e capirete la difficoltà, soprattutto se avete superato i 40 anni!).

Nel processo sono fondamentali anche la curvatura lombare (a livello della vertebra L3) e cervicale: la colonna vertebrale tende a flettersi per assicurare una migliore stabilità. Studi condotti su adulti mostrano che le curvature sono di pochi cm; nei bambini si nota invece una grande curvatura della lombare che si stabilizza solo quando l’appoggio del piede è diventato definitivo e stabile, cioè dopo i 5 anni.

Ogni deformazione dell’appoggio si ripercuote sulla curvatura lombare che praticamente è un centro di trasmissione dell’informazione per mantenere l’equilibrio (è la prima vertebra veramente mobile e grazie alla sua configurazione a piastre parallele è molto resistente agli shock dinamici). Dalle piante del piede partono impulsi propriocettivi che arrivano alla L3 (e più su alla cervicale), vengono elaborati e servono per mantenere l’equilibrio.

Variare l’appoggio?

Da questa sommaria descrizione della postura umana risulta quanto mai ottimistico il tentativo di variare l’appoggio del piede per migliorare la prestazione del soggetto (o per risolvere infortuni). Una variazione del proprio appoggio naturale si ripercuote su tutta la postura e quindi anche sulla colonna vertebrale e sulle sue curvature. In sostanza si cerca di rifare in età adulta quel complesso processo che ha portato all’equilibrio in età infantile.

Cosa accade durante il cammino o la corsa?

appoggio del piedeQuando camminiamo o corriamo, non forniamo solo un’energia positiva che ci fa avanzare, ma subiamo anche un’energia negativa di ritorno che risale fino alla testa a una velocità di 120 km/h sotto forma di vibrazioni che vengono assorbite dalle strutture: 1/10 arriva fino al ginocchio, 1/20 fino al bacino e 1/30 fino alla cervicale.

Quando camminiamo, l’appoggio del tallone determina un impatto che va dall’80 al 100% del peso corporeo. Tale impatto (forza impulsiva) genera una vibrazione elastica di ritorno che non viene sfruttata per avanzare, ma che deve essere assorbita delle strutture ammortizzanti del nostro corpo.

Quando corriamo, l’energia negativa di ritorno è da 3 a 5 volte quella che subiamo camminando (a seconda della natura del terreno, della velocità della corsa e del peso del corridore) ed è per questo che correre è più traumatico: 10 km di corsa equivalgono a circa 40 km di cammino!

Di tallone o di avampiede?

Il tipo di contatto del piede con il suolo varia a seconda della velocità: più si corre lentamente, più si usa il tallone: uno studio fatto dalla Nike su circa 3.000 runner  ha evidenziato che il 75% tocca il suolo con il tallone e il 23% con la pianta del piede o l’avampiede (il 2% è indeterminato). Altri studi hanno ottenuto risultati simili.

In generale, si può dire che, a seconda del campione, una percentuale variabile fra il 65 e il 75% atterra di tallone e una variabile fra il 25 e il 35% di avampiede. La durata d’appoggio del piede al suolo è leggermente più lunga (3 centesimi) per chi appoggia di tallone.

Il tallone non è un buon ammortizzatore a differenza dell’avampiede che, grazie a un sistema complesso di ossicini, legamenti e muscoli, assorbe la maggior parte dell’energia negativa di ritorno. Inoltre chi atterra di tallone ha l’inconveniente di un contatto tallone-suolo così breve che l’onda vibrante di ritorno riesce a propagarsi attraverso il corpo prima ancora di poter essere tamponata dagli ammortizzatori dei legamenti e dei muscoli. Viceversa, chi atterra d’avampiede ha un maggiore carico statico, visto che, di fatto, manca la rullata.

Esiste un appoggio ideale?

Fino a un decennio fa, quando si parlava di appoggio del piede, si soleva distinguere fra pronatori e supinatori (si veda l’articolo Pronazione e supinazione); si considerava cioè l’inclinazione laterale del piede; più recentemente si è iniziato a considerare anche l’inclinazione longitudinale, distinguendo fra runner che corrono sull’avampiede e altri che preferiscono correre sul tallone. Ovviamente, come nel caso di pronatori/supinatori, non esiste una divisione netta, ma ogni runner presenta una propria inclinazione longitudinale.

Purtroppo nemmeno questa ulteriore classificazione ha portato a risultati decisivi: il dibattito degli ultimi anni sull’appoggio del piede (si vedano gli articoli sul correre a piedi nudi, sul pose running) ha inequivocabilmente mostrato che non esiste un appoggio del piede universalmente migliore.

Ciò mette in crisi soprattutto chi sostiene il concetto dell’uso di plantari basati su un modello di runner ideale.

Uno studio finlandese di qualche anno fa (Forefoot strikers exhibit lower running-induced knee loading than rearfoot strikers, Kulmala, Avela, Pasanen, Parkkari; Medicine & Science in Sports & Exercise, 2013) ha mostrato che, a seconda dell’appoggio, le varie parti del corpo vengono diversamente sollecitate e quindi un determinato infortunio può dipendere dall’appoggio. Lo studio finlandese ha evidenziato che chi corre sull’avampiede carica meno il ginocchio di chi corre sul tallone, ma questi ultimi sollecitano meno la caviglia.

Sembrerebbe banale sostenere quindi che cambiando appoggio si possano risolvere gran parte degli infortuni dovuti all’età atletica del soggetto (sono definiti infortuni strutturali e sono circa il 15% del totale); la brutta notizia è che però si vanno a sollecitare altre parti del corpo, parti che per anni magari hanno avuto un carico decisamente inferiore: ecco che si ripristina il tendine, ma il ginocchio fa crac…

L’infortunio da sovraccarico

Circa un terzo dei runner che corrono circa 60 km alla settimana (Centro Nazionale della Sanità di Atlanta, Georgia) è vittima di un infortunio all’anno (nelle donne la percentuale è maggiore e può arrivare al 60%).

Per fortuna, la percentuale degli infortuni invalidanti (quelli che costringono a uno stop superiore alle tre settimane) è decisamente minore, tanto che nell’anno riguarda il 15% degli uomini e il 25% delle donne (il dato femminile è controverso, ma si pensa che la percentuale maggiore sia dovuta al fatto che, mediamente, le donne hanno muscolatura inferiore e che, a pari chilometraggio, avendo velocità media minore, corrono per un tempo maggiore).

Mentre le strutture muscolari sono interessate soprattutto da traumi acuti (come strappi o distrazioni), gli infortuni tendinei e osteoarticolari sono soprattutto dovuti a un sovraccarico continuato in un periodo che può andare dalla singola seduta (l’atleta avverte il problema al termine della seduta) a diverse settimane o mesi (il problema inizia con un fastidio, a volte intermittente, fino a conclamarsi in un dolore che arriva a impedire il gesto atletico).

Gli infortuni alle strutture tendinee e osteoarticolari sono pertanto collegati al traumatismo generato dal ripetuto appoggio del piede durante la corsa. Tale traumatismo deriva essenzialmente da due fattori:

  • la forza impulsiva
  • l’energia di ritorno

C’è molta confusione attorno a questi due concetti, tant’è che molti pensano che una buona scarpa ammortizzante dovrebbe servire “ad assorbire l’urto con il terreno”. Se venisse veramente assorbita la forza impulsiva, il runner non avanzerebbe! Inoltre, se esistessero veramente materiali che assorbono l’urto con il terreno, basterebbe calzarli e saremmo immuni anche da una caduta da 100 m d’altezza. In realtà, l’energia di ritorno è dovuta all’urto elastico fra il piede e il terreno.

Teoricamente, quando avviene l’urto fra due corpi, si ha una deformazione, per effetto della quale, dalla regione ove è avvenuto il contatto, si propaga in ciascuno dei corpi un sistema di vibrazioni, con velocità che dipendono dalle caratteristiche elastiche del corpo.

Lo stato di vibrazione si spegne solo dopo la fine dell’urto. L’energia spesa sia per la deformazione sia per la dissipazione interna delle vibrazioni comporta sempre una perdita dell’energia cinetica che i corpi possedevano prima dell’urto.

Nell’urto fra il piede e il terreno, l’energia positiva è quella che viene impiegata dal complesso sistema locomotore del corpo per avanzare, mentre quella negativa, l’energia di ritorno, è quella che deve essere realmente “ammortizzata”.

Se l’urto fosse totalmente anelastico, l’energia negativa non ci sarebbe, pur rimanendo la forza impulsiva; pensiamo all’urto anelastico fra una macchina e un camion con l’auto che resta incastrata nel camion e procede con esso.

Quindi “ammortizzare” vuol dire eliminare gli effetti negativi dell’energia di ritorno. A parità di caratteristiche (peso, appoggio del piede e velocità del runner), l’ammortizzamento deriva dalle caratteristiche del supporto d’appoggio e del terreno.

Per esempio, l’asfalto ammortizza l’energia negativa solo per il 5%, un soffice manto erboso (campo da golf) circa per il 50%. Una buona scarpa ammortizzante può ridurre dal 30 al 40%. Una buona soletta anche del 90%. Per esempio, correre a piedi nudi sull’erba è equivalente a correre con un’ottima scarpa su asfalto.

In sostanza quindi, scegliendo opportunamente terreno, scarpa e soletta, si eliminano gli infortuni dovuti all’energia di ritorno e quindi si aumenta la distanza critica del soggetto.

Permangono i problemi relativi alla forza impulsiva che sono propri della struttura che si sta usando; tali problemi possono essere eventualmente corretti, ma ogni forma di correzione andrà necessariamente a influire sulla prestazione.

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