ALLENAMENTO
MOTIVAZIONE E SPORT
Parliamo di motivazione e sport, un binomio spesso indagato. Nel linguaggio comune si è soliti definire un atleta rinunciatario come “demotivato”.
Nelle discipline di resistenza l’importanza della motivazione è ancora più rilevante perché correlata al concetto di fatica; infatti la motivazione gioca un ruolo molto importante nell’elaborazione cosciente del segnale di fatica.
Se l’atleta non è motivato, la fatica è avvertita oltre misura e la prestazione diventa scadente. Fin qui tutto chiaro. La motivazione però gioca un ruolo essenziale anche al di fuori della singola prova, legandosi fra un allenamento e l’altro con la vita stessa dell’atleta.
Si può dire che la motivazione nasce dalla concezione dello sport e genera la tipologia di sportivo. Quindi:
concezione dello sport -> motivazione -> tipologia dell’atleta.
Dalla descrizione delle varie tipologie di atleti si può desumere quali siano le motivazioni principali che spingono verso le prove di resistenza. Le motivazioni principali sono cinque:
divertimento
benessere
socializzazione
protagonismo
denaro.
La prima e l’ultima motivazione sono abbastanza ovvie. Il divertimento è (o dovrebbe essere) tipico dell’amatore, mentre il denaro è tipico del professionista per il quale lo sport è un lavoro, un mezzo di sussistenza o il mezzo per assicurarsi una vita futura senza problemi.
In questo articolo analizzeremo le altre tre motivazioni e vedremo come possono influenzare la vita sportiva dell’atleta.
Il benessere
È una motivazione ormai molto diffusa. Le campagne salutistiche hanno diffuso il concetto che lo sport fa bene (anche se c’è sempre qualche sedentario incallito che pretende di dimostrare il contrario) e quindi è logico pensare che molti siano motivati dalla preoccupazione di avere un corpo in forma, un peso corretto, muscoli e articolazioni sempre giovani ecc.
In realtà, la motivazione “benessere” è molto diversificata proprio perché il termine benessere non è sufficientemente oggettivo. In particolare ci si scontra sempre con la percezione della fatica e dello stress organico che possono pesar nella decisione di limitare l’attività sportiva.
Si creano così due poli: da un lato c’è la tipologia jogger e dall’altro quella runner. In mezzo ci sono tutte le varianti, in particolare quella di chi si crede runner, ma è profondamente jogger.
Gli sport di resistenza hanno un grosso vantaggio: con loro non si può mentire. In altri sport, infatti, la motivazione del benessere porta il soggetto a simulare l’attività fisica (vedasi l’articolo sul Low-intensity training).
Caso classico è quello di chi va in palestra: l’80% dei frequentatori della palestra fanno sport con lo stesso senso di costrizione con cui seguono una dieta.
Ciò è reso possibile perché la palestra è un ambiente frequentabile senza arrivare alla soglia di fatica che metterebbe in crisi la volontà del nostro “atleta”. Negli sport di resistenza ciò non è possibile. Anche correre piano per 10 km è sempre fare attività fisica e la fatica si sente!
Una prova del fatto è il test del moribondo che inventai nel 2000 quando nacque il mio sito Internet per rispondere automaticamente a chi mi chiedeva se faceva abbastanza sport.
Dai dati che ho raccolto, il 78% di chi “va in palestra, ma non fa sport di resistenza” non ci riesce! Rovesciando i dati, solo il 22% va in palestra per fare sport seriamente (cioè arrivando a un livello aerobico almeno decente in grado di cambiare i parametri fisiologici del soggetto).
La socializzazione
Questo è un paragrafo molto dolente che mi attirerà di certo molte critiche.
È a tutti ovvio che una delle motivazioni che spinge la gente a fare sport è anche quella di conoscere altre persone, posti nuovi, viaggiare: in una sola parola, socializzare; è importante però capire quando la socializzazione è una motivazione negativa e quando è positiva.
Il parametro da utilizzare per chiarire la questione è la profondità della socializzazione. A tutti fa piacere trovare dei buoni compagni di allenamento, come fa piacere dopo una gara trovare qualcuno con cui commentare le proprie prestazioni sulla base di un sentire comune.
D’altra parte vi sarà sicuramente capitato di trovare anche tipi un po’ strani che “volevano” socializzare a tutti i costi.
PROVA – Provate a chiedervi se le persone che frequentate per motivi sportivi sono persone che stimate, che rispettate, con le quali avete sintonia di idee non solo sullo sport. Se sì, allora la socializzazione è positiva, se no è opportuno che leggiate le prossime righe.
I fattori ricercati nelle persone che avete intorno (stima, rispetto, sintonia di idee ecc.) sono quelli classici dell’amicizia, una condizione senza la quale una generica socializzazione non comporta automaticamente un vantaggio.
Infatti socializzare per non essere soli senza trovare dei veri rapporti umani, ma solo “compagni di viaggio” non è che una strategia che nasconde i nostri problemi esistenziali che prima o poi riemergeranno puntualmente.
In altri termini, nel momento in cui ci si accorge che non si hanno intorno degli amici, ma solo dei “conoscenti” si ricade nella propria solitudine.
E in genere si abbandona lo sport delusi da un’attività che ci ha “tradito” (in realtà non ci si rende conto che i contrasti con coloro che ritenevamo “amici” sono nati proprio perché non avevamo verificato anzitempo questa amicizia).
La socializzazione è invece molto positiva quando porta alla creazione di un gruppo molto affiatato, tant’è che ci possono essere notevoli benefici individuali.
Il protagonismo
Anche questo è un paragrafo difficile perché mi porta a criticare molti atleti che fanno sport solo per avere visibilità sociale. Consideriamo un professionista che ha appeso le scarpe al chiodo da cinque, dieci anni.
Se lo ritroveremo ingrassato, ormai sedentario, senza più nessuna pratica per lo sport che gli ha dato tanto, era ovvio che faceva sport non perché si divertiva, ma perché lo considerava un lavoro o perché gli dava visibilità sociale (o per entrambe le motivazioni).
Se avesse amato veramente lo sport avrebbe continuato a praticarlo anche a livelli più modesti.
Se per un professionista la visibilità sociale è rappresentata da televisione, giornali, sponsor ecc., per un amatore il protagonismo è ancora più ingiustificabile.
Infatti la visibilità sociale che gli deriva dalla pratica sportiva è ridotta alla cerchia di conoscenti, al giornale locale, alla rivista di settore (per i più bravi o per quelli che riescono a strappare una foto o un articolo nella sezione Atleti, tipo Il pizzaiolo di Canicattì), un centesimo o un millesimo di un vero campione.
Nonostante questa limitazione della visibilità il protagonismo sta dilagando nella pratica amatoriale e sta diventando una delle motivazioni principali.
Riassumiamo velocemente i danni del protagonismo:
fa perdere oggettività perché si tende a barare: è più importante apparire che essere.
Spinge verso ogni forma di aiuto lecito (integratori) o non lecito (doping) senza un’analisi critica dei reali benefici.
Spinge verso l’esibizionismo; troppi sponsorizzano iniziative benefiche, umanitarie ecc. con il reale scopo di pubblicizzare sé stessi; è anche esibizionismo quello di chi cerca visibilità con imprese strane.
Crea un mondo relazionale fittizio: non illudetevi di essere amati solo perché qualcuno vi ammira o invidia benevolmente i vostri risultati, ci vuole ben altro per costruire solidi rapporti umani.
Crea un pessimo esempio per i più giovani; spesso il malato di protagonismo non è che un campione del podismo fallito che crede di darsi una seconda chance: sicuramente non sarà un
buon esempio per i propri figli, trasmettendo loro solo valori negativi come il desiderio di vincere a tutti i costi, la compensazione delle sue frustrazioni con i successi del giovane, la creazione di aspettative irrealistiche che poi generano solo delusione ecc.
Crea un pessimo modello esistenziale perché induce a “sognare”, non capendo che il vero eroismo non è trasformare un qualcosa di “normale” in eroico, ma vivere la vita al massimo senza sognare.
Antepone la visibilità al divertimento, rendendo estremamente fragile la propria “vita sportiva”.
Poiché per la visibilità si farebbe di tutto, spinge a comportamenti poco sportivi, come l’invidia nei confronti degli avversari fino a veri propri illeciti (tagli di percorso e trucchi di ogni genere.)
Come si combatte il protagonismo?
Il protagonismo si smonta negando la visibilità.
Un compito che è alla portata di tutti, ma soprattutto dei media. Sono assurdi quei servizi in televisione e sui giornali in cui si esaltano prestazioni amatoriali del tutto banali come correre tot maratone all’anno, correre per 100 km, traversare in bicicletta gli Stati Uniti o l’Europa ecc.
Quando non c’è prestazione, il semplice partecipare a imprese del genere è spesso sintomo di una ricerca di visibilità che con lo sport nulla ha a che fare.
“Sono arrivato terzo ai campionati indoor per amatori”, “Ah, sì, e in quanti eravate?” (erano in quattro!); “Ieri ho vinto i 10000 m in un tempo fantastico”, “Sì, in effetti è un buon tempo, il primatista mondiale ti doppiava solo 8 volte!”. Capito come si smonta il protagonista?
Ogni motivazione, se mal gestita, può trasformare lo sport in compulsione
Il risultato
Ovvero la prestazione, il record, la vittoria. Sicuramente molti si saranno stupiti nel non vedere fra le motivazioni di inizio capitolo il risultato, la vittoria, la prestazione ecc.
In realtà, tutte queste devono considerarsi motivazioni di secondo livello. Consideriamo il caso molto definito della vittoria.
Se l’atleta è un professionista si potrà pensare che sia una motivazione validissima, ma tale giudizio è molto superficiale. In realtà, anche per il professionista la vittoria non è che una motivazione derivata.
In alcuni casi l’atleta vuole vincere per fama (visibilità) oppure per denaro. Entrambe le motivazioni (visibilità o denaro) sembrano del tutto giustificate perché supportate da una prestazione oggettivamente notevole.
I puristi storceranno il naso in tutti quei casi in cui i guadagni fossero ritenuti eccessivi, ma è un atteggiamento che sottintende un errore psicologico di fondo: credere che si possa vincere un’olimpiade solo per fama e gloria.
Con tutto quello di negativo che abbiamo detto sulla visibilità in campo amatoriale, dovrebbe essere ora chiaro che anche in campo professionistico è più equilibrato chi cerca una vittoria olimpica per soldi che per visibilità “universale”.
In campo amatoriale il denaro è raramente la motivazione primaria del risultato. Fra gli amatori però esiste anche un’altra motivazione primaria: il benessere.
Molti atleti cercano un risultato perché hanno stabilito un’equivalenza con un grado di benessere che loro reputano ottimale.
L’esempio classico è quello del trapiantato di cuore che vuole correre una maratona, ma si possono citare anche quello dell’attempato atleta che vuole correre “ancora” la maratona sotto le tre ore per dimostrare di aver rallentato il tempo o quello del sedentario che si era prefisso nel giro di un anno di correre la corsa del suo paese in meno di 40′.
Anche il test del moribondo è un esempio dove il risultato è la motivazione derivata dal benessere.
Quindi non lasciatevi ingannare: scoprite sempre cosa c’è dietro una motivazione basata sul risultato!
Molti atleti fanno sport solo per avere visibilità sociale
La compulsione
Questo ultimo paragrafo tratta di un argomento limite: quando la motivazione si trasforma in qualcosa di patologico. Il termine compulsione deriva dal latino compellere e significa costrizione.
Il soggetto è arrivato a un punto che è costretto a praticare attività sportiva. Non dipende dalla motivazione iniziale:
ogni motivazione, se mal gestita, può trasformare lo sport in compulsione.
La socializzazione diventa compulsione quando costringe l’atleta ogni domenica a compiere decine o centinaia di chilometri per essere presente alla manifestazione di turno; il benessere diventa
compulsione quando c’è una ricerca maniacale dell’attività fisica come unica dispensatrice di salute; il protagonismo diventa compulsione quando c’è la ricerca ossessiva di una prestazione o la ricerca della visibilità a tutti i costi.
In ogni caso:
la compulsione porta a un peggioramento della qualità della vita.
Se si è obbligati a fare sport, prima o poi si arriverà alla nausea dello stesso o a manifestazioni tali da porlo seriamente in dubbio:
ansia
attacchi di panico
atteggiamenti maniacali spesso seguiti da fasi depressive
grandi moli di lavoro non necessariamente supportate dalla qualità
incapacità di allontanarsi dallo sport
accettazione di livelli di stress sempre più alti.
Non necessariamente la compulsione sfocia in stati di sovrallenamento, il più delle volte c’è un rifiuto dello sport perché viene superata la soglia tollerabile di stress.
C’è chi smette perché improvvisamente ha una paura folle di morire d’infarto, c’è chi non sopporta più la vista del cronometro, chi non riesce più ad allinearsi alla partenza di una gara.
La compulsione può diventare anche cronica come quella di un attempato runner che, ormai distrutto dagli infortuni, continuava a partecipare alle maratone, ormai l’unico scopo della sua vita: “corro, quando il dolore è troppo forte, cammino”…
È ovvio che programmi di allenamento sempre più sofisticati su un atleta compulsivo possono essere l’ultimo stadio prima dell’esplosione.
Il soggetto cerca l’allenamento “super” come ultima spiaggia per controllare il suo disagio psichico e, nello stesso tempo, per concretizzare le sue motivazioni ormai patologiche. Per cui se siete schiavi dello sport, anziché cercare di migliorare il vostro allenamento, disintossicatevi!